È interessante l'impatto della fantasia e della cultura di Pontillo con la "classicità": come i suoi scugnizzi travestiti da angeli restano profondamen­te scugnizzi, così le sue amazzoni ferite e perfino le sue menadi desunte dal museo di Dresda risultano donne e popolane, comparse delle scene impersona­te: per quel rustico del segno, quell'infittirsi degli strati in una materia che sa di encausto e di affresco, per quel fare empirico la classicità e non imitarla dall'interno col metodo per esempio di un De Chirico o di un Mariani. Si guardi a tal proposito l'ottimo quadro della amazonomachia 1985 olio su tela (60 x 70) desunto dal bassorilievo di Alicarnasso. La scena di marmo si trasforma in una scena pittorica, il segno a capello, anzi invisibile del marmoreo chiaroscuro, diventa il segno dei contorni post impressionisti, i bianchi che restano non coperti dalla pittura fanno scattare nelle gambe delle duel­lanti, nelle loro tuniche, quel senso della astrazione che già si configurava (e motivava) le composizioni delle processioni di Pontillo del 1983. La felicità e l'originalità del dipinto stanno nella invenzione pittorica su questa scultura, nel movimento segnico e cromatico su quell'altro movimento, antichissimo e fermato in eterno.
Anche la "Menade di Dresda" (1985) olio su tela 40 x 50, mi pare quadro fisionomico di questo momento "colto" di Pontillo: per la consapevolezza con la quale una scultura dentro un habitat romantico e insieme astratto atteggia il suo dramma: quella nuvola sanguigna che pare avvolgere, incendiare la Menade che si torce come dentro una vita. Un che di balletto e un'ingenuità, mai tradita dal talento, spirano dai quadri di questa nuova maniera delle amazzoni, come in modo particolare in "Amazzone e centauro" (1985) olio su tela 50 x 50 nella misura quadrata di una formella; la tavolozza é, si direbbe, di una primavera archeologica, con quegli azzurri e bianchi nel fondo, con quei coralli e aurati dei dolcissimi torsi, una mitologia paesana, cantata forse con un accento un po' dialettale rispetto a quanto han fatto così magistralmente dal 1978 i Piruca, i Di Stasio, ma vitale e fisionomica. Non mi pare dunque che questa nuova mostra personale di Pontillo sia un punto a capo rispetto alla precedente: là il teatro era, come ho accennato, nell'Ottocento della tradizione paesana religiosa, qui è nella mitolo­gia, là la mediazione era evidente, col mezzo fotogra­fico poi ricondotto alla pittura, qui la mediazione è più sottile, nel senso che il reperto archeologico tende a conservare la sua unità, non si frammenta nei "dettagli" di ieri: ma Pontillo se ne avvale con la stessa larghezza interpretativa, anzi trasforma il mito in recita paesana, è insieme rispettoso umanista e pittore di riquadri da cantastorie, fanta­sticante nelle fiabe antiche, quali l'assedio di Atene da parte delle amazzoni, il chitone, la cintura di Ippolita, e impresario di guitti in costume. Questo poetico e pittoresco disequilibrio è una delle caratte-
 

ristiche di Pontillo, il quale, tappa per tappa, sia di mostra in mostra, che di quadro in quadro, trascina ed evolve, ora limpidamente, ora con una certa oscurità di mescolanze, tutte le sue appassionate esperienze di officina, per una vocazione autentica, anche se compressa e dirottata in cento altre faccende; ma a differenza di molti artisti che sono costretti a correre incontro alla pittura da un secondo lavoro senza spesso trovarla disponibile, Pontillo é dalla mattina alla sera dentro il baricentro della sua pittura, qualunque cosa di pittura... non faccia. Si veda per esempio uno dei dipinti più felici e riassuntivi di questa mostra "Ascia e corazza", dipinto recentissimo, una tecnica mista 50 x 70: nel quadro sono gli strumenti di morte, della impavida scelta antidonnesca delle amazzoni, "guerra, solo guerra", che l'artista ha saputo focalizzare come i medaglioni giganteggiati nelle tele di ieri. Il bellissimo rilievo archeologico d'oro vale come un inserto di "oggetto trovato" post pop e insieme non guasta nella tenerezza pittorica di questo paesaggio di cose antiche.

Marcello Venturoli


                                                    
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